FUNDAMENTALS. Biennale di Architettura 2014

Si è chiusa in questi giorni la 14° Mostra Internazionale di Architettura  organizzata dalla Biennale di architettura di Venezia e presieduta da Paolo Baratta. A dirigere questa edizione della Mostra è stato invitato l’olandese Rem Koolhaas, che oltre ad essere un architetto di fama mondiale è anche un pensatore coraggioso e radicale, di certo una figura austera nel panorama architettonico contemporaneo,  il quale ha ideato ‘una ricerca corale sull’Architettura’ che  potesse offrire una riflessione sul destino della disciplina e sui suoi fondamenti, un’operazione di scavo introspettivo che dichiara apertamente il desiderio di ritrovare le radici dimenticate, da cui il titolo di tutta l’esposizione: Fundamentals. Tre sono le sezioni che la Biennale ha proposto  nella tripartizione stabilita dei campi della Mostra: ‘Absorbing modernity 1914-2014’  ai padiglioni nazionali dei Giardini, ‘Elements of architecture’ al padiglione centrale dei Giardini (unica mostra firmata dal solo Koolhaas) e ‘Monditalia’, alle Corderie dell’Arsenale trasformate in questa edizione in una sorta di luogo multimediale e polivalente, con l’intenzione dichiarata di intrecciare trasversalmente una rete di relazioni fra diversi settori nei quali la Biennale è andata nel corso del tempo articolandosi, come Danza, Musica Teatro e Cinema, in un programma complesso ed impegnativo con vere e proprie compresenze fisiche.

E’  passata molta acqua sotto i ponti della Laguna, da quando Rem Koolhaas,  nel 1980, partecipò  alla  prima e indimenticabile Biennale di architettura a Venezia, curata da Paolo Portoghesi, dal titolo ‘La presenza del passato’. Oggi, nelle vesti di curatore, l’architetto olandese, ripensando alla  sua  partecipazione  a quella prima biennale, ne  ha invece rinnegato  i suoi intenti programmatici con un atteggiamento di critica ostile. Ma tante altre esposizioni ironiche, dissacranti e a volte effimere hanno animato i Giardini e Le Corderie dell’Arsenale, magici spazi veneziani carichi di una storia che si è dissolta rapidamente nel tempo senza lasciare tracce significative sugli sviluppi della disciplina. Una sfuggevole passerella di stili e di poetiche che nel peggiore dei casi si trasformava in una rassegna di monumenti a se stessa, con scenografie e apparati grafici pretestuosi che alimentavano il continuo rischio di perdita della dimensione collettiva ed urbana in definitiva sociale degli spazi, dimenticandosi che infondo l’Architettura è l’unica arte che mette in gioco il suo destino giorno per giorno, in una rassegna perenne sotto lo sguardo di tutti e in cui tutti sono all’unisono spettatori e protagonisti.

Quest’anno si è assistito ad un progetto che ha coinvolto tutta la biennale, insieme ad una folta equipe di ricercatori, nel tentativo di proporre una ricerca approfondita su un argomento specifico, differendosi profondamente dallo schema dell’edizioni precedenti. Lo scopo più o meno dichiarato è stato dunque di fare tabula rasa della deriva intrapresa in molte Biennali  del passato , quando il ruolo del curatore era di allestire degli spazi per le  archistar  chiamate a testimoniare il contemporaneo ed inevitabilmente a celebrare se stesse, con progetti spettacolari ed avveniristici. Con questa edizione Rem Koolhaas, da buon agitatore culturale, ha proposto la Mostra come la rappresentazione critica di un’indagine dello stato attuale del mondo dell’architettura concentrandosi in particolare sulle sue storie senza rinunciare ad immaginarne i suoi sviluppi futuri, ma con l’intento dichiarato di dimostrare nei fatti che ‘la storia dell’ultimo secolo può essere scritta senza menzionare un solo architetto di primo piano’. Ecco allora che se Fundamentals è il tema complessivo della mostra, la vera chiave di lettura di tutta quanta l’esposizione è insita nella dichiarazione semplice e  spietata che si legge nel retro di copertina del catalogo di questa 14° edizione della Biennale di Venezia: ‘Architettura (a capo) non architetti’. Significativa, se non provocatoria a tal proposito, l’assegnazione   più prestigiosa di questa edizione tutta controcorrente; il Leon d’Oro alla carriera non certo ad un archistar ma ad una figura animatrice culturale del movimento moderno nordamericano come l’architetto Phyllis Lambert , critica, studiosa e mecenate che ha condotto con sapiente e profondo coinvolgimento la regia di uno degli esempi più perfetti di architettura moderna del XX secolo come il Seagram Building a New York, assicurandosi che la sua costruzione fosse ad opera di Ludwig Mies van de Rhoe…. ‘Se gli architetti creano architettura; Phyllis Lambert ha creato architetti’ !

Sempre secondo Rem Koolhaas ‘questa mostra-ricerca più che un monito  ha voluto essere uno hiatus; così che noi possiamo incominciare a pensare’. In effetti il cambiamento più grande in un epoca contemporanea di tumulti e turbolenze e anche quello peggio documentato, è che dagli albori del movimento moderno negli anni trenta fino all’inizio degli anni ottanta, l’architetto era un’estensione di un stato sovrano, di una città o di un bene pubblico e aveva come visione il benessere di una particolare società, ma negli ultimi trent’anni questo legame si è dissoluto e l’architetto ha intrapreso a lavorare più al servizio di visioni individuali, di singole persone  se non di coorporations. Questo è dovuto anche al fatto che in molti casi gli stati governanti (quando esistono) non esprimono una visione politica chiara ed univoca come in passato; così l’architetto non deve più fingere di contribuire al bene pubblico, per la semplice ragione che esso non esiste più, l’unica cosa che può fare è sperare di essere fortunato e di lavorare per una ‘committenza illuminata’ che vuole condividere le sue buone intenzioni con un equipe ampia di tecnocratici. Il rischio critico  effettivo  di tale nuovo  modus operandi  è quello  di una deriva degenerativa come nel caso di Basilea in Svizzera; una città che nell’ultimo decennio è diventata l’emblema di un difficile dialogo tra genius loci e il suo costruito, per via del lavoro di troppi atelier griffati di livello internazionale, che ha stravolto l’identità del paesaggio urbano locale in una sorta di ‘zoomorfismo architettonico’.

Tutte  le  66 nazioni  invitate a partecipare,  per la prima volta, hanno lavorato su di un unico tema,  Absorbing  Modernity: 1914-2014. Nel farlo, secondo le parole del curatore, ‘hanno dovuto distillare i momenti decisivi di un percorso secolare di modernizzazione;  dimostrando ciascuno a suo modo una capacità di assorbire e trasformare una modernità generica in una più specifica, anche  tramite una frantumazione radicale delle modernità  in un secolo dove il processo di appiattimento globale ha spesso sembrato rappresentare invece la narrazione dominante’. Non solo, secondo il Presidente Baratta la formula adottata dall’architetto olandese quest’anno ha dato nuova energia al pluralismo storicamente intrinseco della Biennale ‘per ogni paese partecipante si sono saldate due aspirazioni possibili e contrastanti in apparenza; rappresentare lo specifico dell’identità nazionale (la propria storia) e la sua capacità di stare come protagonista nel mondo cosmopolita dell’arte e dell’architettura contemporanea (la sua partecipazione al moderno)’. A ben vedere, è opinione personale di chi scrive, visitando ai Giardini i vari padiglioni nazionali, questa nuova linfa vitale era davvero avvertibile, al netto di fisiologici esempi meno felici, non solo in termini quantitativi, visto che il numero di paesi partecipanti è salito da 55 a 66, ma soprattutto in termini qualitativi per la capacità di cogliere, nei casi più interessanti, l’essenza del messaggio  proposto dal curatore e lo spirito interpretativo con il quale gli stessi paesi hanno svolto tale input. In un epoca dove l’appagamento è ottenuto indirettamente tramite la parola e soprattutto l’immagine, non solo nel campo delle arti visive se pensiamo al fenomeno del foodporn che nutre la nuova comunità di gastromaniaci e che imperversa nel nostro bel paese, al contrario Koolhaas sembra avvertire il bisogno di una ‘pausa’ mettendo se stesso e quindi i visitatori della Biennale, a dieta di immagini di architettura. Dopo qualche istante in cui si poteva essere colti da crisi di astinenza, nel percorrere i padiglioni ha prevalso un benefico effetto salutare da digiuno, come di purificazione dall’indigestione di architettura provocata dell’incredibile e a volte insopportabile velocità con cui l’architettura ‘moderna’ viene metabolizzata e consumata nei media contemporanei.

 Gli esempi più positivi di modernità si sono colti nel padiglione Brasiliano con una retrospettiva sugli esempi più significativi dell’architettura dai principi modernisti che si è contaminata in un secolo alle tradizioni locali brasiliane, dall’evocativo idioma ‘Modernidade como tradicao’, dove l’omaggio al grande architetto Oscar Niemeyer era quanto meno doveroso vista anche la sua recente scomparsa. Anche l’Olanda ha reso omaggio al suo ‘Jaap’  Bakema, architetto modernista scomparso nel 1981, con una carriera tutta impegnata nell’edilizia pubblica che attraverso un nuovo funzionalismo ed un ‘razionalismo illuminato’ incarnò al meglio lo spirito di ricostruzione post-bellica dei paesi bassi. Una delle sue più celebrate realizzazione è un centro commerciale di Rotterdam, il Lijnbaan dei primi anni cinquanta, la cui strada è stata tra le prime al mondo a diventare zona pedonale. Oppure lo strano caso dei paesi scandinavi (Finlandia, Norvegia e Svezia) che nel loro padiglione hanno esposto ‘ Forms of freedom: African Independence and Nordic Models’ raccontando  una curiosa storia degli anni sessanta; il loro  ‘gemellaggio’  tramite una cooperazione edilizia con  i paesi africani del Kenya, la Tanzania e il Zambia. Questi stati avevano da poco conquistato l’indipendenza anelando il desiderio  di modernizzazione tramite uno sviluppo politico-economico, di matrice social-democratica, che attingesse proprio all’esempio delle tipologie edilizie delle nazioni del nord Europa che non si erano macchiate di crimini coloniali contro l’umanità. Profetico e significativo chiasmo veniva rappresentato dagli stilemi architettonici del padiglione dei paesi scandinavi che ospitava la mostra stessa. La sua architettura è stata infatti costruita ai Giardini della Biennale nel 1962 su concorso internazionale  vinto dall’architetto norvegese Sverre Fehn e fortemente ispirata dai suoi viaggi nel Nord dell’Africa, in particolare dalle visioni materiche delle semplici e logiche costruzioni primitivo-rurali del Marocco.  Le emozioni più forti dovute alla modernità che storicamente si è scontrata con i grandi drammi del novecento, come le  rivoluzioni e le dittature,  le hanno suscitate  i padiglioni della Corea e del Cile.

Il Leone d’oro come migliore partecipazione nazionale è andato proprio alla Corea, che con ‘Crow’s Eye View: The Korean Peninsula’ ha proposto un allestimento ambizioso, il quale attraverso immagini visive attraenti e toccanti, voleva dimostrare le possibilità culturali dell’unificazione architettonica  delle due coree nonostante non sembra imminente quella politica-geografica. Il padiglione era basato su diversi tipi di installazioni e suddiviso in quattro  temi principali, che hanno riguardato gli stili architettonici delle due Coree, quella del nord e del sud, per la prima volta insieme in un unico spazio. Il primo ‘reconstruction life’ partiva dalla fine della guerra in Corea quando entrambe le parti del paese erano devastate dai bombardamenti del conflitto. Il secondo tema ‘monumental state’ era incentrato sull’architettura monumentale delle due parti mentre il terzo ‘bords’, riguardava i confini spaziali dove le due parti erano divise ed interconnesse fisicamente allo stesso tempo, con l’esempio emblematico della zona demilitarizzata DMZ. L’ultima sezione ‘ Korean tours’  invece comprendeva alcuni interessanti pezzi di grafia pop-art  tratti da una collezione privata  e raffiguranti l’ottimismo sociale del popolo come conseguenza della modernizzazione senza tuttavia effetti paternalistici o retorici. Il Leone d’Argento è andato al padiglione del Cile dove anche in questa proposta, dal titolo ‘Monolith controversies’,  l’architettura moderna si incrociava con la violenza della storia e in particolar modo ai fantasmi della guerra fredda. Nel centro del padiglione campeggiava il grande pannello  in cemento prefabbricato realizzato nel 1972 significativo anche per il  fatto che il cemento  fu per eccellenza il materiale simbolo del movimento moderno. Questo pannello  veniva prodotto nella città cilena di Quilpuè in una fabbrica donata dalla Russia al governo locale del presidente marxista Salvator Guillermo Allende e che aveva realizzato il sistema KPD di prefabbricazione per edilizia popolare. Si trattava di un pezzo originale importante in quanto recante la firma a cemento fresco proprio dello stesso Allende e che venne posto simbolicamente a titolo commemorativo all’ingresso della fabbrica stessa, rimanendoci poi fino al colpo di stato, quando cioè nel 1973 il governo dittatoriale  di Augusto Pinochet  prese il potere. Se con quel gesto iniziale Allende consacrò a quei pannelli prefabbricati frutto di un processo meccanico  ‘l’aura’  teorizzata da Walter Benjamin di vera e propria opera d’arte, il nuovo regime mise in atto un processo di riattribuzione ideologica di significato cancellando la firma di Allende e  trasformando completamente l’iconografia del pannello, aggiungendovi nel vano finestra una pala d’altare raffigurante la Madonna con Bambino con ai lati due lampade in stile coloniale. L’intento dei curatori cileni è stato dunque quello di far rivelare come un ideale politico, potente anche se latente, si può conseguire esclusivamente solo attraverso mezzi estetici.

Prima segnalazione speciale per la Francia, patria dello stile moderno grazie allo storico studio di Jean Prouvè, dove si formerà anche Le Corbusier, con una mostra divertente ed ironica dal titolo ‘Modernità: promessa o minaccia’ dove lo scopo dei curatori era di sottolineare le aspettative e le delusioni che il modernismo incontrò nel paese. Il padiglione esponeva  il modello realizzato nel 1958 di Villa Arpel,  indiscussa protagonista della brillante commedia satirica  ‘Mon oncle, le chef d’ouvre’ di Jacques Tatie. Nel film l’abitazione avveniristica viene proposta come un oggetto del desiderio e di tentazione poiché sembra una possibile soluzione al vivere moderno quando invece finisce per innestare irrimediabilmente situazioni ridicole,  con costrizioni quasi dittatoriali nelle quali la gente vive estremamente infelice, segnando in qualche modo le sorti di questa tipologia abitativa modernista che non riesce a radicarsi nel tessuto urbano delle cittadine francesi nonostante le grandi possibilità economiche che la borghesia media vantava in quei decenni, la quale resterà invece ancorata a soluzioni costruttive più tradizionali.  Altre menzioni speciali di merito per il Canada che ha presentato una mostra ‘Arctic adaptations: Nunavut at 15’  sulle architetture per climi estremi delle sue regioni più a nord. Il padiglione mostrava le abitazioni usate dagli indigeni che vivono a Nunavut , un territorio a nord del Canada e che sta celebrando i suoi primi 15 anni di annessione. Infine menzione speciale anche per la Russia con ‘Fair  Enough’ per il suo finto stand fieristico che raccontava sarcasticamente il tema della propaganda e di come la modernità attuale si sia ridotta solo a una brillante ed orgiastica fiera delle vanità.

In ultima analisi, questa 14° edizione della Mostra Internazionale di Architettura,  confrontandosi in particolare con  ‘absorbing modernity’ , invitava le nazioni a guardare alle radici del proprio passato attraverso l’impatto che le utopie e le disillusioni del movimento moderno hanno avuto sulle rispettive architetture  locali. Tuttavia la Mostra di Koolhaans, alternando rigore, ironia e leggerezza trasversale, a livello mediatico poneva controcorrente una domanda fondamentale: come e quando l’economia dei mercati mondiali ha corroso moralmente e svuotato di senso l’architettura ?  Tutto ciò ha provocato grandi reazioni nella stampa internazionale e diviso profondamente il panorama della critica architettonica contemporanea.

 

A cura di Stefano Zaghini Architetto


Articolo pubblicato su Gazzetta Ambiente, N.2/2015, pp. 137-144.